venerdì 17 aprile 2015

Il Beato Angelico al Museo Diocesano di Torino

A Torino sarà possibile vedere per la prima volta il dipinto del Beato Angelico Compianto sul Cristo morto, esposto in occasione della Solenne Ostensione della Sacra Sindone da giovedì 16 aprile a martedì 30 giugno 2015 al Museo Diocesano di Torino.
L’opera, concessa in prestito straordinario dal Museo di San Marco di Firenze, è collocata in una teca protetta del Museo Diocesano, esattamente sotto la Sindone esposta in Cattedrale.
L’allestimento è realizzato dagli architetti Chiara e Maurizio Momo, e l’esposizione è promossa dal Museo Diocesano di Torino, dalla Consulta per la Valorizzazione dei beni Artistici e Culturali di Torino e dall’Associazione Sant’Anselmo-Imago Veritatis.
Giovanni da Fiesole, detto il Beato Angelico o Fra’ Angelico, fu un pittore italiano nato a Vicchio nel 1395 circa e morto a Roma nel 1455. Fu il Vasari, nelle Vite, ad aggiungere al suo nome l’aggettivo “Angelico”: sia per la religiosità delle sue opere, sia per le sue doti di umanità e umiltà. Il Vasari racconta che il Beato Angelico aveva «la consuetudine di non ritoccare alcuna sua pittura, ma lasciarle sempre in quel modo che erano venute la prima volta, per credere che così fusse la volontà di Dio… che non avrebbe preso i pennelli se prima non avesse fatto orazione. Non fece mai crocifisso, che e’ non si bagnasse le gote di lacrime». Nel 1982 Giovanni da Fiesole fu beatificato da papa Giovanni Paolo II. Il Beato Angelico  si formò nella Firenze di Gherardo Starnina e Lorenzo Monaco. Da quest’ultimo apprese l’uso di colori accesi e di una luce fortissima, impiegati per rendere il misticismo della scena sacra.
«Il frate domenicano», spiega Magnolia Scudieri Direttrice del Museo di San Marco a Firenze, «ha unito l’influenza dello stile gotico elegante e decorativo con lo stile più realistico di Masaccio, Donatello e Ghiberti e ha applicato le teorie della prospettiva di Leon Battista Alberti». Nelle opere del Beato Angelico i nuovi principi rinascimentali, come la costruzione prospettica e l’attenzione alla figura umana, si uniscono con i vecchi principi dell’arte medievale quali il valore mistico della luce e la predilezione per i colori accesi.
Fra’ Angelico visse tra Fiesole, Firenze, Roma e Orvieto e fu protagonista di quell’irripetibile stagione artistica che, sotto il patronato dei Medici, vide grandi opere pubbliche tra cui il Convento di San Marco. Gli affreschi del Beato Angelico, sulle pareti del chiostro e delle celle superiori del Convento, sono tra le opere più famose e amate del frate domenicano. Per l’assoluta armonia e semplicità delle forme, prive di distrazioni decorative superflue, e per la cromia più tenue e spenta, gli affreschi segnano una nuova fase dell’arte dell’Angelico, caratterizzata da una parsimonia nelle composizioni e da un rigore formale mai usati prima. Le figure sono poche e diafane, alleggerite e semplificate; gli sfondi deserti o composti da architetture nitide inondate di spazio e di luce, che è veicolo verso la trascendenza.
L’opera, tempera su tavola, fu eseguita nel 1436 per una confraternita laicale, la Compagnia di Santa Maria della Croce al Tempio. Nello specifico per la loro chiesa presso una delle porte urbiche di Firenze, detta Porta della Giustizia perché al suo esterno venivano giustiziati i condannati a morte. Sull’altare dell’oratorio, unica sosta per i condannati, il dipinto dell’Angelico raffigura Cristo deposto da uno croce a “tau” (a forma di forca). Sullo sfondo si possono vedere le mura della città con una grande porta urbica aperta; la luce illumina il paesaggio e Firenze sembra quasi una Gerusalemme celeste. Come illustra Mons. Thimothy Verdon, Direttore del Museo dell’opera del Duomo di Firenze: «L’immagine aveva la funzione non solo di confortare il condannato, invitandolo a identificare le proprie sofferenze con quelle di Cristo, ma anche di riconciliarlo alla comunità – alla città – che l’aveva espulso e che stava per togliergli la vita, ma che nel dipinto viene presentata con una bellezza trascendentale».
La tela fu commissionata dal monaco benedettino Don San Sebastiano di Jacopo di Rosso Benintendi, nipote della santa raffigurata nel Compianto (la penultima figura a destra di chi guarda), Beata Villana delle Botti. Donna sposata dalla vita dissoluta, Beata Villana s’era convertita a Cristo e l’Angelico la raffigura mentre contempla il Salvatore morto e pronuncia le parole “Cristo Gesù, l’amor mio crocifisso”. Tra le altre figure rappresentate: San Domenico, in piedi a sinistra, Maria, la madre di Gesù, che contempla il volto del figlio che abbraccia, e Maria Maddalena che gli bacia i piedi insanguinati. Notevole è l’utilizzo del colore da parte del pittore italiano per intensificare l’emozione; scrive Mons. Verdon: «Questi personaggi, ognuno dei quali esprime una diversa qualità e intensità di dolore, diventano per Angelico una sorta di laboratorio delle emozioni, che qui e in altre opere egli analizza con esattezza scientifica».
Il cadavere di Cristo è disteso su un lenzuolo, che potrebbe essere quello sindonico. «Il corpo di Cristo», spiega Natale Maffioli, curatore del Museo Diocesano di Torino «è connotato da una particolarità che è stata chiamata “il braccio della morte”: il braccio inerte, disposto pendulo e perpendicolare al corpo del Signore. È questa una “pathosformel” che percorre trasversalmente tutta la produzione artistica del genere fino a debordare, in ambito laico, nel dipinto de “La morte di Marat”, del pittore francese Jaques-Louis David».
Nell’opera dell’Angelico l’azione non sembra ancora completamente conclusa: lo si avverte dai gesti di Giovanni, della pia donna e di Maria Maddalena, che sembrano concorrere alla fase finale della deposizione a terra del corpo di Cristo; in contrasto col movimento discreto delle figure rappresentate è l’immobilità del Cristo, già raggiunto dalla rigidità cadaverica.
Il dipinto può essere ammirato presso il Museo Diocesano di Torino anche grazie allo straordinario lavoro di restauro condotto dall’Istituto Centrale del Restauro tra il 1950 e il 1953. A causa delle alluvioni occorse nei secoli, l’opera fu fortemente danneggiata nella metà inferiore, che subì ampie perdite di colore originale.

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