A Torino sarà possibile vedere per la prima volta il dipinto del Beato Angelico Compianto sul Cristo morto, esposto in occasione della Solenne Ostensione della Sacra Sindone da giovedì 16 aprile a martedì 30 giugno 2015 al Museo Diocesano di Torino.
L’opera, concessa in prestito straordinario dal Museo di San Marco di Firenze, è collocata in una teca protetta del Museo Diocesano, esattamente sotto la Sindone esposta in Cattedrale.
Giovanni da Fiesole, detto il Beato Angelico o Fra’ Angelico, fu un pittore italiano nato a Vicchio nel 1395 circa e morto a Roma nel 1455. Fu il Vasari, nelle Vite, ad
aggiungere al suo nome l’aggettivo “Angelico”: sia per la religiosità
delle sue opere, sia per le sue doti di umanità e umiltà. Il Vasari
racconta che il Beato Angelico aveva «la consuetudine di non ritoccare
alcuna sua pittura, ma lasciarle sempre in quel modo che erano venute la
prima volta, per credere che così fusse la volontà di Dio… che non
avrebbe preso i pennelli se prima non avesse fatto orazione. Non fece
mai crocifisso, che e’ non si bagnasse le gote di lacrime». Nel 1982
Giovanni da Fiesole fu beatificato da papa Giovanni Paolo II. Il Beato
Angelico si formò nella Firenze di Gherardo Starnina e Lorenzo Monaco.
Da quest’ultimo apprese l’uso di colori accesi e di una luce fortissima,
impiegati per rendere il misticismo della scena sacra.
«Il frate domenicano», spiega Magnolia Scudieri Direttrice del Museo
di San Marco a Firenze, «ha unito l’influenza dello stile gotico
elegante e decorativo con lo stile più realistico di Masaccio, Donatello
e Ghiberti e ha applicato le teorie della prospettiva di Leon Battista
Alberti». Nelle opere del Beato Angelico i nuovi principi
rinascimentali, come la costruzione prospettica e l’attenzione alla
figura umana, si uniscono con i vecchi principi dell’arte medievale
quali il valore mistico della luce e la predilezione per i colori
accesi.
Fra’ Angelico visse tra Fiesole, Firenze, Roma e Orvieto e fu
protagonista di quell’irripetibile stagione artistica che, sotto il
patronato dei Medici, vide grandi opere pubbliche tra cui il Convento di San Marco.
Gli affreschi del Beato Angelico, sulle pareti del chiostro e delle
celle superiori del Convento, sono tra le opere più famose e amate del
frate domenicano. Per l’assoluta armonia e semplicità delle forme, prive
di distrazioni decorative superflue, e per la cromia più tenue e
spenta, gli affreschi segnano una nuova fase dell’arte dell’Angelico,
caratterizzata da una parsimonia nelle composizioni e da un rigore
formale mai usati prima. Le figure sono poche e diafane, alleggerite e
semplificate; gli sfondi deserti o composti da architetture nitide
inondate di spazio e di luce, che è veicolo verso la trascendenza.
L’opera, tempera su tavola, fu eseguita nel 1436 per
una confraternita laicale, la Compagnia di Santa Maria della Croce al
Tempio. Nello specifico per la loro chiesa presso una delle porte
urbiche di Firenze, detta Porta della Giustizia perché
al suo esterno venivano giustiziati i condannati a morte. Sull’altare
dell’oratorio, unica sosta per i condannati, il dipinto dell’Angelico
raffigura Cristo deposto da uno croce a “tau” (a forma di forca). Sullo
sfondo si possono vedere le mura della città con una grande porta urbica
aperta; la luce illumina il paesaggio e Firenze sembra quasi una
Gerusalemme celeste. Come illustra Mons. Thimothy Verdon, Direttore del
Museo dell’opera del Duomo di Firenze: «L’immagine aveva la funzione non
solo di confortare il condannato, invitandolo a identificare le proprie
sofferenze con quelle di Cristo, ma anche di riconciliarlo alla
comunità – alla città – che l’aveva espulso e che stava per togliergli
la vita, ma che nel dipinto viene presentata con una bellezza
trascendentale».
La tela fu commissionata dal monaco benedettino Don San Sebastiano
di Jacopo di Rosso Benintendi, nipote della santa raffigurata nel
Compianto (la penultima figura a destra di chi guarda), Beata Villana
delle Botti. Donna sposata dalla vita dissoluta, Beata Villana s’era
convertita a Cristo e l’Angelico la raffigura mentre contempla il
Salvatore morto e pronuncia le parole “Cristo Gesù, l’amor mio
crocifisso”. Tra le altre figure rappresentate: San Domenico, in piedi a
sinistra, Maria, la madre di Gesù, che contempla il volto del figlio
che abbraccia, e Maria Maddalena che gli bacia i piedi insanguinati.
Notevole è l’utilizzo del colore da parte del pittore italiano per intensificare l’emozione;
scrive Mons. Verdon: «Questi personaggi, ognuno dei quali esprime una
diversa qualità e intensità di dolore, diventano per Angelico una sorta
di laboratorio delle emozioni, che qui e in altre opere egli analizza
con esattezza scientifica».
Il cadavere di Cristo è disteso su un lenzuolo, che potrebbe essere
quello sindonico. «Il corpo di Cristo», spiega Natale Maffioli, curatore
del Museo Diocesano di Torino «è connotato da una particolarità che è
stata chiamata “il braccio della morte”: il braccio inerte, disposto
pendulo e perpendicolare al corpo del Signore. È questa una “pathosformel”
che percorre trasversalmente tutta la produzione artistica del genere
fino a debordare, in ambito laico, nel dipinto de “La morte di Marat”,
del pittore francese Jaques-Louis David».
Nell’opera dell’Angelico l’azione non sembra ancora completamente
conclusa: lo si avverte dai gesti di Giovanni, della pia donna e di
Maria Maddalena, che sembrano concorrere alla fase finale della
deposizione a terra del corpo di Cristo; in contrasto col movimento
discreto delle figure rappresentate è l’immobilità del Cristo, già
raggiunto dalla rigidità cadaverica.
Il dipinto può essere ammirato presso il Museo Diocesano di Torino
anche grazie allo straordinario lavoro di restauro condotto dall’Istituto Centrale del Restauro tra
il 1950 e il 1953. A causa delle alluvioni occorse nei secoli, l’opera
fu fortemente danneggiata nella metà inferiore, che subì ampie perdite
di colore originale.